Uno sparo. Una pistola emette fumo dalla propria canna. Un cadavere. Una donna muore per rivendicare i propri diritti di madre, seppur adottiva, seppur non ce ne fosse bisogno. Il “più debole dei mari”. Di sicuro, tra i più crudeli, per i lampi, sporadici, di criminalità di pirati masticati e sputati dalla Rotta Maggiore, che per una sorta di “rivincita”, scorrazzano in lungo e in largo compiendo ogni genere di nefandezze.
Siamo nel Mare Orientale. Siamo nel Villaggio di Goosa, che, leggendolo senza la giusta pronuncia, è quasi un’onomatopeica allusione ai lamenti di due bambine, figlie, ormai orfane, dinanzi al corpo esanime della madre. Il carnefice sogghigna, la sua legge è rispettata, la sua scia di terrore ancora prosegue, il suo controllo sull’isola ha inizio. Il suo nome; Arlong, appartenente alla razza degli uomini-pesce. Una razza diversa da quella umana. Una “razza scelta da Dio”, magari lo stesso che di lì a poco avrebbe fatto precipitare un’intera isola in mare (sì, mi riferisco ad orecchie lunghe fulminanti). Una razza fisicamente più dotata, ma discriminata come poche. Di questo stiamo parlando. Di uno dei messaggi più belli di One Piece, lampante e diretto a chi gusta l’opera per la prima volta, o la sta rileggendo l’ennesima volta. Stiamo parlando di uno dei mali che divora il mondo, anzi, I mondi; quello tutto inchiostro ed avventure di Oda, e quello corrotto e “grigio” in cui viviamo. Stiamo parlando di razzismo.
Perché la pistola ha sparato? Perché Arlong gode così tanto nell’aver compiuto un gesto di tale brutalità? È un problema chiamato complesso. Sì. Esatto. Non venitemi a dire soldi, follia o sete di sangue. Semplicemente voglia di confermare la propria superiorità di razza. Perché andando avanti con l’opera, pian piano si aprono di più gli occhi e gli orizzonti della storia diventano più vasti. Perché andando avanti con l’opera si scopre che la “razza scelta da Dio” null’altro è che un popolo rifiutato sulla terraferma, costretto a vivere in fondo al mare, in un’enorme bolla, sull’Isola degli Uomini Pesce.
L’uomo è brutto. L’uomo è cattivo. Così si cresce, laggiù. E non solo nei bassifondi. Ah, poi che l’isola più vicina e l’unico scalo per arrivare in quella bolla dimenticata da dio, quale ironia, ospiti pure una casa d’aste di certo non aiuta, sapete com’è: gli uomini-pesce vengono venduti al primo che passa, spesso e volentieri per lavorare come schiavi, lì dentro. Eppure avevano provato a colmare le distanze tra una razza e l’altra. La regina Otohime era quasi riuscita a far emergere la sua specie da quell’oblio abissale. Il prode Fisher Tiger aveva schiacciato e distrutto coloro i quali intrappolavano gli sfortunati abitanti dell’isola, additati come mostri e fenomeni da baraccone. Eppure era sempre andato storto tutto quanto. Vuoi per il Governo Mondiale, seriamente preoccupato per le capacità fisiche e quindi distruttive di questa razza, vuoi per gli stessi Uomini-Pesci, alcuni dei quali troppo colmi d’odio per aprirsi al mondo vero, quello privo di pregiudizi.
Otohime fu assassinata, Tiger ebbe la peggio durante l’ennesima battaglia (il governo aveva messo sulla sua testa una cifra superiore ai 200 milioni), ma poteva essere salvato, se solo l’unico sangue a bordo non fosse stato quello umano. Se solo il pregiudizio non avesse vinto la ragione. Per provare a tenere a bada il malcontento serpeggiante tra i “mezzi pesci”, Jinbe fu chiamato nella Flotta dei Sette, anche e soprattutto per motivi prettamente legati alla forza del soggetto, la cui taglia, tra quelle conosciute dei Flottari, ad ora è ancora la più alta (mi sbilancio dicendo che forse potrebbe diventare la seconda, se finalmente fosse rilasciata quella di Mihawk).
L’odio continuava, però, a sfornare orrori. Arlong era solo l’inizio, un’intera generazione era stata segnata, e se il primo, da solo con altri 3-4 compagni aveva rivoltato un’isola ed il Mare Orientale, figuriamoci cosa poteva fare un intero esercito. Un intero popolo. Sembrava si dovesse continuare all’infinito. Sembra che, ancora una volta, una bella avventura, una bella storia debba essere raccontata con delle sfumature tristi, pesanti, ingiuste. Invece no. Torniamo indietro.
Arlong viene spazzato via. Il governo si accorge di un moscerino con il Cappello di Paglia e del suo (scarno) seguito. Il moscerino di lì a qualche mese (andatevi a rileggere attentamente tutta l’opera dall’inizio e contate quanti giorni effettivi passano dall’inizio alla fine del Vecchio Mondo, io sono ancora scioccato) distrugge i 3 grandi centri di potere governativi. Il moscerino diventa un gigante. Il moscerino sparisce per due anni. Il moscerino ricompare a Sabaody, diretto sull’Isola degli Uomini Pesce e pone fine ad ogni diatriba, sconfiggendo gli ultimi figli dell’odio, le ultime marionette nelle mani del pregiudizio. Ed il fatto che sia proprio quella combriccola di scalcinati a girare pagina è un po’ il succo di tutto questo mio approfondimento fin troppo lungo: la spensieratezza e il fregarsene delle apparenze in favore del carattere, dell’animo e dell’individuo, elementi tipici dei Mugiwara e di Rufy (devo ricordarvi che sulla Sunny ha una renna, uno scheletro, un Cyborg e, se tutto va bene, avrà anche un Uomo-Pesce?) Ancora una volta One Piece è maestro di vita, ancora una volta Oda ha lanciato una denuncia. Il razzismo non ha ragione d’esistere, l’odio non deve trovare terra fertile. E se ce lo dicono anche i fumetti, capite che la situazione non è allegra.
-Cacciatore Bianco