One Piece non è un’opera a lieto fine, non è un gioco infantile di pupazzi che si tirano pugni e sfoderano straordinari poteri.
Qui non si gioca con la fantasia, piuttosto si interpreta il vero evolversi della vita umana. In tutte le sue sfumature.
Un’ambizione troppo alta? Affatto, un obiettivo ben raggiungibile.
Per capire a fondo la questione dobbiamo utilizzare come chiave di interpretazione la figura principale di tutta la storia: il nostro capitano, nonché promesso Re dei Pirati, Monkey D. Rufy.
Un idiota? Un folle? Un eterno bambino con la sindrome patologica di Peter Pan?
Forse il maestro Oda ha appositamente gettato tutte queste cose nel calderone psicologico del protagonista, ma in maniera strategica ha dimenticato di chiudere tutto con il coperchio.
Rufy si trasforma, da adolescente diventa uomo attraverso l’allenamento del Time Skip (che non è solo fisico, ma anche mentale), affronta le sue paure, si rende conto di quello che davvero gli appartiene: i suoi sogni e le sue più grandi amicizie.
Ma allora perché un titolo così “grave”?
Semplicemente perché il nostro uomo di gomma conosce bene la morte, la respira nelle avventure, la affronta, è consapevole della sua necessità nelle dinamiche dell’intero sistema naturale.
Rufy sa di dover morire e di dover guardare morire.
“Le persone muoiono, Bibi. Sei una sciocca se speri il contrario.”
È così che si apre l’atto finale della saga di Alabasta, è così che veniamo divorati da uno dei personaggi più complessi dell’opera che, sotto il cappello di paglia, nasconde responsabilità e consapevolezze importanti.
Il filosofo e scrittore latino Seneca affermava: “La morte è un avvenimento certo, per questo non la si deve temere quanto attendere”.
Rufy sa di non essere fisicamente immortale.
Per questo motivo ha dato vita al sogno dell’eternità, per questo il suo ricordo, nelle prossime generazioni pirata, non verrà mai perso.
Rigor Mortis, la Necessità della Fine
644